Accedi

Accedi all'agorà virtuale

Username *
Password *

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ricorda la tragedia di Curto

 

« ...ricordando anche con una citazione il valore dell’unicità del genere umano, al di là e al di sopra di differenze di confini, etniche, religiose, culturali, di abitudini, questa unicità ricorda il valore dell’indivisibilità dei diritti umani e della libertà.

In qualunque comunità la libertà non è effettiva se non è appannaggio di tutti. E il mondo intero è ormai sempre più una comunità raccolta, ormai con nessuna distanza effettiva, una comunità interconnessa, dentro la quale la mancanza di libertà o di esercizio dei diritti in un luogo colpisce tutti, ovunque. E questo richiamo è per noi particolarmente avvertito in questi giorni.

A non molta distanza da qui, sulle coste di Calabria, giorni fa si è verificato un evento tragico che ha, come tutti ben sappiamo, coinvolto interamente la commozione del nostro Paese.

I profughi afgani hanno fatto tornare anzitutto in mente quanto, quasi due anni fa, il nostro Paese ha fatto nel momento in cui i talebani occupavano Kabul per portare in Italia non soltanto i nostri militari in missione lì, ma per portare in Italia tutti i cittadini afgani che avevano collaborato con la nostra missione.

Non ne abbiamo lasciato nessuno, li abbiamo tutti accolti qui in Italia.

Ecco, questo ci fa tornare alla mente le immagini televisive della grande folla di afgani all’aeroporto di Kabul che imploravano un passaggio in aereo per recarsi altrove. Ci fa quindi comprendere il perché intere famiglie, persone che non vedono futuro, cercano di lasciare, con sofferenza - come sempre avviene - la propria terra per cercare un avvenire altrove, per avere possibilità di un futuro altrove.

Quindi, di fronte all’evento drammatico che si è consumato, ma ancor più a ciò che questo raffigura di condizioni drammatiche, in quello come in altri Paesi, il cordoglio deve tradursi in scelte concrete, operative, da parte di tutti. Dell’Italia, per la sua parte, dell’Unione europea, di tutti i Paesi che ne fanno parte. Perché questa è la risposta vera da dare a quello che è avvenuto, a queste condizioni che – ripeto - con violazione dei diritti umani e della libertà, colpiscono tutti, in qualunque parte del mondo.»


Alcune pagine dal romanzo "Comandante" di E. De Angelis e S. Veronesi

 

25. TODARO

Alla fine è successo.

Abbiamo affondato una nave che viaggiava a luci spente, ma non è questo: questa è piuttosto la ragione per cui siamo qui. Abbiamo anche perso un altro uomo, un giovane ufficiale dotato e coraggioso.

Ma, Rina, non è nemmeno questo.

Quello che è successo, è successo subito dopo, quando le sartie della nave colpita erano già schiantate e lei era già annegata in fondo al mare. Mentre le chiazze di benzina in fiamme abbrustolivano il mare, è successo quello che mi toglieva il sonno nelle notti tranquille, a cui pensavo e ripensavo, chiedendomi che cosa avrei fatto, se fosse successo – anzi non “se”, “quando” fosse successo, perché sapevo che sarebbe successo.

La prima voce ha gridato da poppa: “Due uomini in mare si avvicinano a dritta! Che facciamo, Comandante?” Io avevo tra le braccia il corpo del povero Stiepovich che era appena morto da eroe. Un fascio di luce perlustrava il mare buio come l’inferno, dal quale provenivano urla disperate e ancor più disperati trilli di fischietto.

La seconda voce ha gridato da prora: “Altri tre uomini da mancina, Comandante! Che facciamo?”

Naufraghi, Rina mia. Uomini vinti che nuotavano a fatica e puntavano tutte le loro forze residue sul nero sommergibile che li aveva appena ridotti in quello stato. Uomini che fino a mezz’ora prima avevano le stesse cose che abbiamo tutti noi, e bada, Rina, che non parlo di denaro, non parlo di ricchezze, parlo delle povere cose che ogni uomo si porta sempre dietro, anche in guerra: le foto dei propri cari, il rasoio, il pennello e il sapone per radersi, le sigarette, gli zolfanelli, il pettine, la brillantina, le forbicine, il portachiavi, la roba di ricambio, un maglione di lana fatto ai ferri dalla mamma, le scarpe da riposo, un orologio da taschino appartenuto a un antenato, un mazzo di carte da gioco, una penna stilografica con l’inchiostro raggrumato nel pennino. Tutte quelle loro povere cose in quel momento stavano per toccare il fondo dell’oceano insieme alla nave che le conteneva. Quegli uomini ora non avevano più nulla. Avevano solo un corpo, sempre più pesante, sempre più vicino alla fine, un corpo ancora caldo che l’acqua gelata avrebbe assiderato in pochi minuti. Anzi, Rina cara, non è giusto che io ti dica “avevano”: loro “erano” quel corpo, ormai erano soltanto quello. Non erano superstiti, come li chiama l’ordine 154 di Dönitz, erano naufraghi. Guardavo i loro occhi sbarrati, le loro bocche spalancate, sempre più vicine, tenevo ancora tra le braccia il povero Stiepovich, al quale ero molto affezionato.

La voce di Marcon: “Scialuppa in avvicinamento, Salvatore. Piena di uomini. Che facciamo?”

Stava succedendo, Rina mia, e la domanda era una e una soltanto: “Che facciamo, Comandante? Che facciamo? Che facciamo?”

L’ordine numero 154 di Dönitz è chiarissimo: dice che bisogna lasciarli lì, i superstiti, e andarsene. E anche gli ordini di Lord Cunningham, per gli inglesi, o dello stesso Churchill, sono uguali: colpire, affondare, sparire. Siamo in guerra, diamine.

Siamo in guerra, Rina, e tu sai bene quanto io rispetti la guerra, sai quanto il mio essere sia plasmato per combattere e sai quanto alla guerra io sia disposto a sacrificare. Lo sai perché il mio sacrificio alla guerra sei tu stessa: il nostro amore, la nostra famiglia. Siamo in guerra, sì, e io lo so benissimo: però non siamo solo in guerra. Siamo in mare. E siamo uomini. E anche il mare ha le sue leggi, anche l’essere uomini le ha, guerra o non guerra.

L’ordine numero 154 di Dönitz è chiarissimo, Rina, ma nel buio della notte atlantica Dönitz non c’era. C’ero io, e sopra di me c’era solo il buon Dio, come lo chiamava don Voltolina: “Il buon Dio che tutto vede”…

Quanto ci avevo pensato, Rina mia? Quanto me l’ero immaginato quel momento? Quanto me l’ero già chiesto io stesso: “Comandante, che facciamo?”

26. MARCON

16 OTTOBRE 1940 - ORE 4.00

“Tirateli su.”

Sono io stesso a ribattere l’ordine di Todaro, e i marinai immediatamente lo eseguono. Afferrano quelli che sono arrivati a nuoto, più morti che vivi, e li tirano su, mentre la scialuppa stracarica si staglia, sempre più vicina, nella chiazza di petrolio lasciata dal Kabalo, che riverbera la luce del faro.

I naufraghi in mare sono cinque, uno di loro non ha nemmeno la forza di aggrapparsi alla corda per essere issato sul ponte del sommergibile. Un suo compagno lo sostiene e riesce a fare in modo che salga, poi sale anche lui. Sulla coperta i suoi occhi stremati e riconoscenti si incrociano con quelli di Todaro, riprendono vita. Gli altri tre vengono tirati sulla coperta del Cappellini. Due hanno la pelle nera come è nero tutto, stanotte. Bastino e Cardillo li guardano con sospetto, li toccano appena. L’altro, bianco, ha la faccia ustionata che sembra me.

[…]

43. RECLERCQ

È un’alba limpida, spazzata dal vento. A bordo dei battelli di salvataggio, a gruppi di quattro, i miei compagni vengono sbarcati sulla spiaggia. Malfermi, feriti, stupiti, respirano finalmente a pieni polmoni. Essere vivi e circondati da tanta bellezza è un dono assurdo, violento. A mano a mano che si allontanano, guardano per l’ultima volta il sommergibile che li ha portati fin qui, e i marinai italiani, radunati sul ponte, guardano loro. Qualcuno li saluta. Per ultimi rimaniamo Vogels e io, a tu per tu con il Comandante. Adesso Vogels sente il bisogno di parlare, e mi chiede di tradurre per lui.

“Ma voi, chi siete?” è la sua domanda.

Il Comandante italiano si liscia il pizzetto e risponde: “Un uomo di mare. Come voi.”

Vogels tace un istante, poi pronuncia un’altra frase in fiammingo e io lo guardo stupito, ed esito prima di tradurla, finché lui, con un gesto del capo, mi incoraggia a farlo, e allora lo faccio: “Trasportavamo aerei inglesi,” dico.

Il Comandante italiano non fa una piega. “Lo immaginavo,” risponde. Ora quello laconico è lui, mentre a Vogels si è improvvisamente sciolta la lingua.

“Voi sapete,” chiede, “che al vostro posto io non vi avrei preso a bordo?” E il Comandante: “È la guerra.”

“Perché voi ci avete salvato?”

L’uomo a cui dobbiamo la vita accenna un sorriso, una crepa quasi impercettibile nella sua maschera di combattente.

“Perché noi siamo italiani,” dice.

E. De Angelis, S. Veronesi, Comandante, Bompiani, 2023

UniTN Orienta

amministrazione trasparente

Antologie 2.0

Curricoli digitali

Didasharing

Didasharing

Collaborazioni

cassa rurale alto garda rovereto
graffiti2000
la ricerca

Liceo "Andrea Maffei" - Viale F.A. Lutti, 7 - 38066 Riva del Garda (TN) - Tel. 0464 553511 - Fax 0464 552316 - C.F. 84000540223
email: segr.liceo.maffei@scuole.provincia.tn.it - PEC: maffei@pec.provincia.tn.it

Don't have an account yet? Register Now!

Sign in to your account